In
un paese immaginario ma non troppo della Valdelsa collinare si svolgono le
vicende gialle delle indagini che hanno per protagonista il commissario
Cantagallo. In questo mondo immaginato, parallelo a quello vero di cui ne risente
dei ritmi e delle vicissitudini, i personaggi delle storie narrate lasciano
trasparire le loro peculiarità, i loro sentimenti, le loro debolezze, le loro
aspirazioni, i loro sogni, le loro speranze. Personaggi immaginati ma personalità
vere che tocchi con mano, con le quali potresti andare benissimo a mangiare una
pizza oppure invitare a casa per un compleanno di famiglia tra amici. Oppure
solo per scambiare due chiacchiere in una lunga passeggiata tra le strade del paese
nelle ore più fresche della sera a fine giornata. Perché al volgere della fine
del giorno si tirano le conclusioni di quanto è accaduto e si fanno certe riflessioni
per stabilire cosa fare il giorno seguente. Non è soltanto la storia del giallo
con dei poliziotti che si barcamenano e si arrampicano sugli specchi per
risolvere l’enigma che si cela nelle vicende criminali per riuscire ad agguantare
il colpevole. Non è solo questo. Sono anche i ragionamenti a proposito di particolari
vicende personali che vanno risolte, che devono essere confessate agli amici
fidati per trovare una soluzione oppure solo per uno sfogo necessario a sopportare
un peso che grava solo sulle proprie spalle. Quindi, le confessioni dei
colpevoli si mescolano alle confessioni private degli amici o dei poliziotti
con i quali il commissario trascorre più tempo che nella propria famiglia. I
suoi poliziotti diventano così le persone di fiducia, gli amici della vita che
lo accompagnano nello scorrere delle giornate, non solo per sbrogliare i
delitti.
Nel
giallo “Una notte di settembre”, pubblicato dalla casa editrice LFA Publisher di Caivano in provincia di Napoli, i rapporti tra Cantagallo e i suoi pochi uomini
fidati si fanno sempre più stringenti per l’emergenza del momento che lo
costringe alla clandestinità per salvare la pelle.
Dal giallo “UNA NOTTE DI SETTEMBRE”, LFA Publisher
Per Cantagallo parlare delle indagini con
gli altri colleghi era fondamentale per poter risolvere i crimini. Secondo il
commissario si dovevano condividere le informazioni conosciute e le
considerazioni personali per metterle a fattore comune, riflettendoci sopra.
Tutto questo, per analizzare in modo pragmatico i fatti accaduti e da questi
partire per immaginare i fatti che li avevano preceduti, formulare le corrette
ipotesi e indicare la pista investigativa da seguire per arrestare il
colpevole. Cantagallo giustificava il suo pensiero investigativo, soprattutto
nell’indagine di un delitto, per due ragioni fondamentali. La prima, era che un
bravo poliziotto doveva interpretare in modo corretto il significato degli
indizi e degli oggetti recuperati durante l’indagine di un omicidio.
Inquadrarli in un certo perimetro per delimitare quello che Cantagallo piaceva
definire come “mosaico criminale” e che non si stancava mai di ricordare ai
colleghi del commissariato. Una volta completato il mosaico, l’assassino era
smascherato, scoperto, arrestato. La seconda, era che un bravo investigatore
doveva lavorare come se fosse un archeologo, però particolare. Questo però se
lo teneva per sé e non lo aveva detto agli altri colleghi. Cantagallo
considerava che l’archeologo era un professionista di una disciplina, che
studiava i fatti accaduti nel passato e le loro relazioni con l'ambiente
circostante, mediante la raccolta, la documentazione e l'analisi delle tracce
materiali che erano state lasciate in un certo luogo, come ad esempio oggetti,
resti biologici e umani. Di conseguenza, cos’era il mestiere del poliziotto
della Squadra Omicidi? Nient’altro che lo stesso lavoro, con l’unica differenza
che chi aveva lasciato tracce nel passato era sempre vivo e vegeto, per mandare
all’altro mondo chi cercasse di non fargliela passare liscia nel presente.
Sembrava un concetto un po’ astratto ma, per il commissario, era un
ragionamento che filava.
Cantagallo notò che Baccio stava pensando a
qualcosa.
«Baccio, hai qualcosa da dire?»
E decise di suggerire una cosa che gli era
venuta in mente.
«Commissario, ascoltando i suoi
ragionamenti, mi sono fatto una certa idea. Mi sono chiesto perché l’omicida ha
scelto proprio un quadernone con delle scritte per bruciare il volto della
prima donna. Non un block notes, non dei fogliacci ma proprio un quadernone,
come ha riferito nei dettagli Cuomo.»
«Quali dettagli? Questi particolari del
quadernone non me li ricordo. Puoi essere più preciso?»
«Cuomo ha riferito che, per quello che ha
constatato il dottor Pacifico, per appiccare il fuoco al viso della prima donna
era stato usato un quadernone che sulla copertina aveva un leone e nelle pagine
c’erano delle scritte. Quindi, riflettendo su tutto questo, posso anche
chiedermi perché è stato usato un quadernone quando bastava gettare un
fiammifero per dare fuoco al viso della donna.»
«Le tue considerazioni sono corrette,
Baccio. La mia spiegazione per l’utilizzo del quadernone è che l’omicida ha sfregiato
il viso quando la donna era già morta. Ha usato il quadernone come una specie
di fiaccola, per non bruciare l’altra metà del viso.»
«Va bene, però la scelta del quadernone,
oltre ad essere la firma dell’assassino come ha detto lei, non deve essere
casuale ma deve rappresentare una cosa ben precisa per chi l’ha uccisa. L’omicidio
è stata fatto così perché significava qualcosa per l’assassino che altrimenti
avrebbe agito in un altro modo. Poteva usare dei fogli di giornale ma non l’ha
fatto.»
«Forse aveva dei quadernoni a portata di
mano e non era un lettore di quotidiani.»
«E come se li sarebbe procurati quei
quadernoni?»
«Può averli presi dai sacchi della carta da
riciclare che sono messi in strada tutte le settimane. Quadernoni vecchi e
nuovi non più utilizzabili.»
«Giusto, ma non basta per capire il
perché.»
«Sono d’accordo anch’io che bisognerebbe saperne
di più. Però la traccia del quadernone è un po’ poco per indirizzare le
indagini.»
«Quel poco che però fa escludere in maniera
definitiva la pista della gang africana, come sosteneva Spagnuolo prima di
vedere il video. Lei ce lo vede l’esponente di una gang che dopo aver
violentato una donna si fa passare un quadernone per bruciarle la faccia?»
Bandino annuiva col capo per confermare
l’ipotesi del collega.
«Commissario, quello che ha detto Baccio
non fa una grinza. Spagnuolo, dopo il primo omicidio, si era ostinato nel
sostenere la pista della gang africana violenta che poi sfregiava le donne
bruciando i volti senza spiegarne il perché. Secondo lui, la gang si accaniva
sul corpo di quelle donne perché non sapevano cosa fare e volessero vedere che
effetto facesse sfregiare il volto di una donna.»
«Che, secondo me, è un’ipotesi senza senso»
ribadì Cantagallo. «Chi ha sfregiato il volto voleva vendicarsi di qualcosa e
comunque allungare i tempi delle indagini, visto che ha portato via pure i
documenti delle donne impedendone il riconoscimento. Ora però vorrei passare a
un altro argomento che mi interessa più da vicino. Volevo parlare di chi
conosciamo bene e che non si vuole fare riconoscere. Prima però fatemi
concludere la cena con quella crostatina che deve essere una meraviglia.»
Per
il commissario Cantagallo tutto quello che occorre per scoprire un colpevole
non deve essere tralasciato come non si devono tralasciare i rapporti personali
con i colleghi poliziotti, sapendo ascoltare e richiedendo l’ascolto degli
altri per ricevere opinioni e consigli su quello che c’era da fare. C’era
spazio anche per cose più frivole per stemperare le vicende di lavoro con delle
stupidaggini. Quelle stupidaggini gli alleggerivano il fardello che si portava
dietro tutti i giorni che Dio metteva in terra quando entrava in commissariato.
Un fardello fatto soprattutto delle vicende drammatiche dei delitti che lo coinvolgevano
nella persona e lo fiaccavano nello spirito. Come poliziotto, e soprattutto
come uomo, non si era ancora abituato a fronteggiare freddamente le situazioni
drammatiche con le quali veniva in contatto quando accadeva un delitto. Non
riusciva a rimanere impassibile di fronte a certe circostanze in cui il dramma
coinvolgeva una famiglia che aveva perso una persona cara.
Parlare con gli altri colleghi era
fondamentale per il commissario perché bisognava condividere le informazioni conosciute
e le considerazioni personali per metterle a fattore comune, riflettendoci
sopra. Tutto questo, per analizzare in modo pratico i fatti accaduti e da
questi partire per immaginare i fatti che li avevano preceduti, formulare le
corrette ipotesi e indicare la pista investigativa da seguire per arrestare il
colpevole. Il commissario giustificava il suo pensiero investigativo per due
ragioni fondamentali. La prima, era che un bravo poliziotto doveva interpretare
in modo corretto il significato degli indizi e degli oggetti recuperati durante
l’indagine di un omicidio. Inquadrarli in un certo perimetro per delimitare
quello che Cantagallo piaceva definire come “mosaico criminale” e che non si
stancava mai di ricordare ai colleghi del commissariato. Una volta completato
il mosaico, l’assassino era smascherato, scoperto, arrestato. La seconda, era
che un bravo investigatore doveva lavorare come se fosse un archeologo, però
particolare. Questo, però, se lo teneva per sé e non lo aveva detto a tutti i
suoi colleghi. Cantagallo considerava che l’archeologo era un professionista di
una disciplina, che studiava i fatti accaduti nel passato e le loro relazioni
con l'ambiente circostante, mediante la raccolta, la documentazione e l'analisi
delle tracce materiali che erano state lasciate in un certo luogo, come ad
esempio oggetti, resti biologici e umani. Di conseguenza, cos’era poi il
mestiere del poliziotto della Squadra Omicidi? Nient’altro che lo stesso
lavoro, con l’unica differenza che chi aveva lasciato tracce nel passato era
sempre vivo e vegeto, per mandare all’altro mondo chi cercasse di non fargliela
passare liscia nel presente. Sembrava un concetto un po’ astratto ma, per il
commissario Cantagallo, filava liscio come l’olio. Molti anni prima, quando era
appena arrivato come commissario a Collitondi, aveva espresso questo concetto a
Baccio. Il sovrintendente Bacciottini, detto Baccio dal commissario, era un
poliziotto in gamba, avversario quasi sempre vincente nelle partite a scacchi
con Cantagallo e uomo molto attento a certe sfaccettature del loro lavoro. Per
fare un esempio, Baccio era anche l’archivista capo e aveva applicato i
principi della Biblioteconomia per organizzare la documentazione cartacea del
commissariato. Un giorno aveva spiegato a Cantagallo che per archiviare correttamente
i documenti occorreva organizzarli da un punto di vista biblioteconomico. Questo
era fondamentale per facilitare la ricerca dei faldoni negli scaffali. Baccio ricordava
al commissario che applicava la Quarta legge dello scienziato Ranganathan: “Non
far perder tempo al lettore. La fame e la sete mentale per i libri si
esauriscono se non sono immediatamente soddisfatte”. Cantagallo era rimasto
talmente sorpreso che gli aveva confidato le sue considerazioni sulla materia dell’Archeologia
applicata al lavoro di un investigatore. Sembravano stupidaggini, forse, ma per
Cantagallo erano importanti perché così poteva sopportare meglio certe situazioni
drammatiche con cui veniva in contatto durante le indagini. Quelle stupidaggini
gli alleggerivano il fardello che si portava dietro tutti i giorni che Dio
metteva in terra quando entrava in commissariato. Un fardello fatto soprattutto
delle vicende drammatiche dei delitti che lo coinvolgevano nella persona e lo
fiaccavano nello spirito.
Per il commissario Cantagallo, non era
facile fare il poliziotto di un paese di periferia, nemmeno in quel piccolo
paese di Collitondi, e non lo nascondeva. Non era un lavoro uguale a quello dei
colleghi nei commissariati delle grandi città, alle prese con la malavita
organizzata. Ma ciò nonostante, si trovava sempre di fronte al cadavere di una
persona ammazzata che attendeva giustizia e al dolore dei familiari che
chiedevano il colpevole. Che il delitto fosse compiuto da un’organizzazione malavitosa
non rendeva il crimine più doloroso, semmai ne accresceva la nefandezza con cui
era stato eseguito. L’omicidio di una persona era un evento straziante che gli
appesantiva la vita. Come poliziotto, e soprattutto come uomo, non si era
ancora abituato a fronteggiare freddamente le situazioni drammatiche con le
quali veniva in contatto quando accadeva un delitto. Non riusciva a rimanere
impassibile di fronte a certe circostanze in cui il dramma coinvolgeva una
famiglia che aveva perso una persona cara. Più indagava sui delitti e più non
capiva come l’omicida arrivasse alla determinazione di togliere la vita a
un’altra persona, un marito potesse uccidere la propria moglie, un genitore i
propri figli oppure, all’opposto, un figlio i propri genitori. Rimaneva
sgomento e lasciava alla vice l’incombenza di avvertire i parenti della persona
uccisa. A lungo andare, si era reso conto che anche quei piccoli crimini di
paese lo trascinavano dentro a dei gorghi torbidi, dove era difficile uscirne e
poi, quando ne era uscito, gli lasciavano addosso qualcosa di lurido che gli
pesava sull’esistenza. La conclusione di un’indagine di un delitto gli lasciava
dentro molta sofferenza. Arrestare un criminale non lo ripagava completamente
perché si ritrovava addosso un bagaglio di atrocità sociali di cui avrebbe
fatto volentieri a meno. Dopo che era stato a contatto con i criminali, non rimaneva
immunizzato dalle loro crudeltà ma da esse ne rimaneva inquinato. Quindi, per
lasciarsi alle spalle le acque luride della palude dei fatti criminali,
rientrava in famiglia dove toglieva la giacca del poliziotto per tornare marito
e genitore, con tanta voglia di normalità, meno rigore e più spensieratezza. Per
il commissario Cantagallo era molto importante la famiglia, stare con la moglie
e fare progetti, divertirsi col figlio e parlare del futuro. I ritmi di una
grande città non gli avrebbero permesso di dedicare molto tempo alla famiglia e
quando scelse l’incarico a Collitondi, lo fece in funzione di questo. Tutte le
altre cose intorno potevano continuare a girare in tondo liberamente ma
sarebbero girate a vuoto e nel vuoto, senza la famiglia che gli stava accanto. La
famiglia, per il commissario Cantagallo, era il vero motore che faceva girare
il mondo.
Per
il commissario Cantagallo era duro fare quel mestiere di poliziotto
anti-crimine impegnato quotidianamente a risolvere delitti o presunti tali. Un
lavoro che richiedeva sacrifici, rinunce e molta pazienza. Il suo lavoro gli
piaceva e lo appassionava ma non era una passeggiata.
Questa era forse la parte più dura del suo
lavoro di poliziotto: sollevare quei risvolti, prenderli in mano, analizzarne freddamente
i contorni, ripercorrere la fitta trama ordita dall’assassino e trovare la
ragione di certi accadimenti per scoprire il colpevole. Ma chi era poi il
colpevole? Colui che commetteva coscienziosamente un reato, oppure colui che
metteva in atto un’azione terribile senza ritorno, per reagire a un destino a
lui avverso e dal quale non sapeva uscirne fuori in un altro modo? Le persone,
che fino a quel momento aveva conosciuto perché avevano commesso degli omicidi,
non erano mai delinquenti professionisti ma solo dei disgraziati che, nel
delitto, avevano trovato una via d’uscita a tutti i loro problemi. Una via
sbrigativa, una via preferenziale per chiudere i conti con tutto e tutti, a
volte anche ponendo fine alla propria stessa vita. Forse il colpevole era
qualcos’altro. Era un individuo che si ritrovava addosso un fardello ingombrante
e insostenibile. Qualcosa più grande della stessa persona, qualcosa che pesava
talmente tanto che l’individuo non ce la faceva a sostenerlo e preferiva
disfarsene, ponendo fine alla vita altrui, piuttosto che sopportarne il peso chiedendo
aiuto all’altro. Al giorno d’oggi molte cose cambiavano rapidamente e
altrettanto velocemente cambiavano i nostri modi di comportarsi, di reagire e
di interagire con gli altri. Negli ultimi tempi, molti omicidi fra le mura domestiche
accadevano proprio per la troppa solitudine delle persone che preferivano
affidarsi ai post nei social virtuali, piuttosto che al parlare con le amicizie
vere. I tempi cambiavano e con loro le persone. Individui che, se non
riuscivano a tenere il passo inseguendo l’ultima versione di un telefonino,
oppure, se non riuscivano a essere molto social per postare dalla mattina alla
sera immagini e pensieri di ogni tipo, rischiavano di soccombere nel mondo
reale all’insorgere del più piccolo problema, magari scegliendo la via di fuga
del delitto o del suicidio. Internet, con pc e telefonini, non doveva essere un’estensione
della propria vita reale ma solo una propaggine non essenziale per l’esistenza
di ognuno di noi, pronta a essere staccata in qualsiasi momento e mai
necessaria alla vita normale di ogni persona. Internet era solo un sistema di
comunicazione, come il telefono, la televisione, la radio. Non indispensabile
ma utile. Nessuno avrebbe mai pensato di entrare in crisi profonda o di
uccidere qualcuno, se una persona avesse sparlato di lui in qualche servizio
alla radio. Però un video della ex senza veli, postato sui social dall’amante respinto,
poteva scatenare un odio irrefrenabile che degenerava in episodi di violenza
omicida. Il commissario non era “social”. Non era un’attività compatibile con il
suo lavoro. Spesso diceva a Bandino: “Il social sta a Cantagallo come la
cravatta sta al maiale”. L’anno prima, a dicembre, si era dovuto cimentare in
un’indagine internet in diretta su facebook per ordine del Giudice Fontanarosa.
L’esperienza obbligata non l’aveva entusiasmato ma aveva capito molte
sfaccettature di una realtà moderna che non conosceva. Proprio in una realtà come
quella di oggi si doveva muovere Cantagallo e di questa doveva tenere conto per
non sottovalutare certe situazioni, che si potevano presentare durante le
indagini.
Tutto
questo vi fa capire quale sia il mondo immaginato ma vero, reale e soprattutto
normale in cui si muove il commissario Cantagallo.
«Da quando sono arrivato a Collitondi cerco
di fare pulizia, stando nelle strade, con la mia presenza e con quella dei miei
uomini nel territorio e non negli uffici del commissariato. Si lotta contro i
delinquenti facendo vedere che lo Stato è presente e noi stiamo in strada, non
per fare le multe con l'autovelox, ma per far vedere alle persone che la
Polizia sorveglia e controlla la salvaguardia di tutti i cittadini. Qui, come
in tutta la Toscana, ogni persona si deve sentire al sicuro e al riparo da ogni
criminale o malintenzionato. In paese ognuno deve sentirsi tranquillo come
dentro le mura di casa sua. Lei si ricorderà, signor Profeti, quando in paese
le persone lasciavano la chiave nella toppa della porta di casa? Ecco mi
piacerebbe ritornare a quei tempi. Ma è solo un'illusione».
Mentre
parlavano, si erano incamminati a brevi passi lungo la via Maestra. Leonetto si
lasciò prendere la mano, o per così dire la parola, dall’atteggiamento aperto
di Cantagallo. Lo prese a braccetto con fare confidenziale, come se fossero
amici di vecchia data. Piano piano che parlava, si rilassava, e lo spirito
dello scrittore venne fuori.
«Vede, commissario, lei la pensa come me.
Collitondi è la mia casa. Voglio bene a questo paese per tante ragioni. Una di
queste è l’ospitalità. Il paese è nel mio cuore di emigrante e di tanti che,
come me, lo hanno scelto per costruirvi la propria famiglia. Alcuni passano da
qui e attraversano questi luoghi osservando distrattamente quello che può
offrire questa bella terra, la Val Marna. Boschi e fiumi, prati e ruscelli,
colline e pianure, valli e pendii, tortore e storni sicuri nei nidi e placidi
quando solcano il cielo, intrecciano voli, si sollevano oltre i dolci colli per
planare verso i luoghi dell’abbeverata. Liberi. La natura è viva, la senti
nell’aria, la tocchi, la vedi. Qui, il sorgere del sole sorprende ogni mattino,
facendo capolino fra le verdi pendici dei colli e colorando con il suo riflesso
rossastro le acque dei fiumi al tramonto. Tutto intorno risplende e il bagliore
incastona un paese operoso, fatto di gente semplice. Sì, gente semplice sono i collitondesi.
Schietti, concreti, a volte chiusi per chi non li conosce bene, ma sempre
pronti ad aprirsi alle persone di ogni origine che hanno bisogno, con un grande
cuore. La gente è vicina, la senti al tuo fianco. Nelle iniziative sociali,
quando occorre chiedere una mano per chi non ha nessuno a cui rivolgersi e
quando deve tenderla per aiutare chi soffre, anche solo per fare la spesa al
supermercato, con le persone del volontariato che aiutano gli anziani alla Coop.
La vedi la gente, è nelle vie del mercato settimanale, nel ristorante tipico in
cima alla Fortezza oppure nelle piazze vestite a festa per i giorni speciali, a
passeggiare sicura nelle stradine del centro fino a tarda sera. La senti la
gente, è nel profumo delle paste appena sfornate dal pasticciere del bar del
centro storico, nell’aroma fragrante del pane fresco che viaggia nelle ceste
bianche del fornaio dell’alimentari giù da basso o nel brusio pomeridiano fra i
negozi illuminati. Ma è anche nel sorriso della vicina di casa che ti porge lo
spicchio d’aglio che ti manca per dare il tocco finale a una pomarola come si
faceva una volta. E per tutte queste ragioni e altre ancora, Collitondi è il
mio rifugio».
Cantagallo rimase impressionato ed
emozionato dalle splendide parole del signor Profeti. Sarebbe rimasto ad ascoltarlo
ma aveva ancora tante cose da fare, prima che facesse sera.
«Signor Leonetto, mi piacerebbe rimanere
ancora con lei ma mi attendono al commissariato. È stato un piacere, ma ora la
devo proprio lasciare».
«Commissario, il piacere è stato mio. Lei è
una gran brava persona, perché sa parlare alla gente ma soprattutto la sta ad
ascoltare. Non è facile al giorno d’oggi trovare una persona come lei. Secondo
me, dovrebbe fare il poliziotto in una grande città e non in un paesino come
questo».
Il commissario si schermiva, scuotendo il
capo e sorridendo.
A Cantagallo non piaceva essere al centro
dell'attenzione. Non cercava i grandi scenari delle metropoli cittadine e
tantomeno gli piaceva l’atmosfera pressante di una grande città. Non gli piaceva
nemmeno stare sotto la luce dei riflettori della celebrità. No, tutt'altro.
Voleva solo fare bene il suo lavoro insieme ai colleghi della sua squadra, la
Squadra Omicidi del commissariato di Collitondi, un commissariato di periferia.
Perché lui era un poliziotto di periferia. Voleva starsene alla periferia per
osservare, distaccato e rilassato, cosa accadeva nel centro dove risplendevano
i bagliori della fama e della notorietà. Senza curarsene. Osservava tutto
questo dalla periferia del suo commissariato, semmai non accorgendosi che,
cambiando la visuale del suo punto di osservazione, quel luogo dove si trovava
lui diventava centrale rispetto a tutto il resto che lo circondava. Ed era
proprio questa centralità acquisita che lo poneva all’attenzione della gente che
lo stimava come una persona perbene e lo considerava tale, prima ancora come
uomo che come poliziotto.
«Se mi posso permettere, commissario, per
me lei è un galantuomo, un uomo come quelli di una volta. Un uomo di cui ce ne
sarebbe bisogno in tante situazioni, per far andare avanti le cose nel miglior
modo possibile».
«Non esageriamo, signor Profeti. Faccio
solo il mio dovere. Faccio quello che avrebbe fatto un altro commissario se
fosse stato al mio posto. Nient’altro».
Non
dimenticatevi che leggere i post è bene ma leggere i gialli è meglio, perciò
comprateli, leggeteli e fateli leggere.
E
ricordatevi che nelle indagini del commissario Cantagallo, oltre il giallo c’è
molto di più. Quindi non perdere l’occasione per andare
in libreria e acquistare il libro " UNA NOTTE DI SETTEMBRE” il nuovo giallo del commissario
Cantagallo che è stato pubblicato dalla LFA Publisher.
Per tante altre letture visitate il mio blog, per tutto il resto buona
giornata.
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