In questo appuntamento del giovedì cerco di battere l'articolo a proposito del
giallo "LA MOSSA DEL BARBIERE", il giallo corto ambientato a Collitondi che è stato
premiato col 2° PREMIO a GIALLO GARDA 2016 per la sezione e-book,
il tutto nella splendida cornice del Lago di Garda in quel di Raffa di Puegnago del Garda nella Libreria BACCO CANTINA della gentile Laura Marsadri.
Il libro, credo che a questo punto lo sappiano anche i muri, è stato
pubblicato da Cristian Cavinato della Cavinato Editore International,
in formato e-book e in cartaceo.
Vi auguro una buona lettura di questo primo capitolo e vi assicuro che anche i capitoli successivi sono all'altezza per garantirvi uno splendido cocktail di mistero, azione, deduzione, thriller con un pizzico di simpatia che non guasta mai.
Perché il commissario Cantagallo sapeva benissimo che nel suo lavoro non bisognava prendersi troppo sul serio, per non ingigantire troppo le cose che già di per sé erano molto pesanti e ingombranti, ma che comunque non erano insormontabili. Al contrario di certi suoi colleghi che avrebbero voluto far credere di confrontarsi con indagini sensazionali e terribili per rendere maggiormente importante il loro ruolo, facendolo, come si suol dire, cascare dall'alto. Per Cantagallo occorreva sdrammatizzare certi fatti di loro natura già drammatici per le situazioni che si venivano a creare e per le condizioni che li avevano determinati. Non bisognava accrescere ancora di più la tragicità di certe circostanze per giustificare la presenza di un poliziotto. Un poliziotto era lì perché quello era il proprio lavoro e doveva farlo bene perché chi si rivolgeva a lui voleva risposte decise e non atteggiamenti di commiserazione per il tragico fatto avvenuto. A volte, per stemperare il clima pesante di certe indagini dei delitti, poteva capitare di staccare la spina, giusto il momento per parlare di calcio oppure per fare una semplice battuta. Infatti il commissario Cantagallo sapeva che durante una giornata pesante, non era una mancanza di rispetto affrontare un argomento leggero oppure farsi scappare una battuta spiritosa. Bisognava farlo per allegerirsi il fardello che si portavano sulle spallle tutti i santi giorni che entravano in commissariato, per riuscire a tirare avanti quel loro lavoro molto pesante che a volte era difficile da trasportare. Lo spazio per le battute simpatiche e gli argomenti leggeri era comunque utilizzabile anche in altri momenti della giornata nel commissariato, e quello che leggete in questo primo capitolo è proprio uno di quelli.
" Capitolo uno
Alla macchinetta del caffè, il commissario Cantagallo sorseggiava un “Blu”, un caffè speciale che da qualche tempo a quella parte si concedeva in ufficio nel dopo pranzo.
Passata l’estate, il commissariato si era dotato di una macchina a cialde che era stata comprata dopo una democratica votazione dei colleghi. Quasi all’unanimità avevano scelto un gioiellino che faceva un caffè come quello del bar. Nella votazione Cantagallo si era astenuto, anche perché non era abituato a bere caffè durante la giornata e la cosa lo lasciava indifferente. Ma dopo aver assaggiato quello di “Carmençita”, così l’aveva soprannominata, si era dovuto ricredere. Da quel momento non poteva fare a meno di prendersi un espresso nel dopo pranzo, mentre ogni tanto si regalava un “Blu”, ovvero un caffè “Jamaica Blue Mountain”. Costava più degli altri in circolazione ma era il caffè più buono del mondo. Ricchissimo di aromi perché coltivato ad alta quota nella terra lavica delle montagne blu della Giamaica con oltre dieci mesi di maturazione, così glielo aveva descritto Baccio. Cantagallo lo beveva rigorosamente nella tazzina, ma di un tipo particolare. Era un bicchiere di porcellana bianca, dalla forma di un bicchierino da caffè di plastica accartocciato. Al commissariato si erano organizzati così: ognuno si portava la propria tazzina da casa per non bersi il caffè nei bicchierini di plastica, tanto pratici ma tanto inadatti a percepire in pieno l’aroma del caffè. E quando arrivava l’inverno, le cose peggioravano. Col freddo, il caffè si raffreddava subito spegnendo così tutto il suo profumo. Proprio come in quei giorni d’inizio ottobre, quando dell’aria nordica fuori stagione aveva deciso di insinuarsi fra le vie del paese.
Cantagallo, mentre col cucchiaino era intento a recuperare dal fondo della tazzina lo zucchero cremoso impregnato di caffè, dette uno sguardo di sfuggita alla guardiola. Dentro, Baccio e Cappera, con la loro tazzina di caffè in mano, parlavano e guardavano il computer, dove c’era la simulazione di una partita a scacchi. Baccio, serio, indicava le tecniche per muovere i pezzi della scacchiera. Se avesse indossato una tunica arancione, con la sua corporatura grassoccia, il viso tondo e i pochi capelli in testa, si sarebbe potuto benissimo scambiare per un monaco tibetano in gita. Cappera, attenta, lo ascoltava in religioso silenzio come una diligente novizia dello Zen. Baccio era un campione della scacchiera. L’anno prima aveva vinto il campionato provinciale Interforze di scacchi delle Forze di Polizia portando a casa la coppa del primo premio e un bel prosciutto offerto dallo sponsor. Il trofeo, una riproduzione dorata un po’ pacchiana del re degli scacchi simile alla statuetta degli Oscar, risplendeva sulla sua scrivania e suscitava l’invidia del commissario, che ogni tanto si cimentava col collega avendo spesso la peggio.
Ma quei due che stavano facendo?
Cantagallo si avvicinò incuriosito.
«Che fai, Baccio? Fai vedere a Cappera come mi stracci a scacchi?».
«Ci mancherebbe altro, commissario. Due partite le vinco io e una la vince lei, niente “cappotti” per ora. Le ricordo che le devo la rivincita per quella che ha perso l’altro giorno».
«Giusto. Ma ora, che fai?».
«Approfittavo della pausa caffè per far vedere certe mosse particolari a Cappera che è alle prime armi. Ho lasciato la scacchiera a casa e così approfittavo del computer per vedere la simulazione di una partita».
«Baccio è proprio in gamba, commissario» fece la novizia mentre sorseggiava il caffè. «Vorrei pagargli le lezioni di scacchi, ma non mi ha ancora detto quanto vuole».
«Cappera, se proprio vuoi pagarmi» iniziò a dire Baccio «mi darai un centesimo per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta e così via raddoppiando i centesimi su ogni casella fino alla sessantaquattresima».
La poliziotta rise per quella richiesta che le sembrava ridicola.
«Pensavo di più, con un bel po' di centesimi me la cavo. Accetto».
Cantagallo sorrise e guardò Baccio che intanto rideva di gusto.
Cappera non capiva.
«Ma che avete tutti e due? Ho detto che pago e pagherò!».
Il commissario spiegò il mistero.
«Cappera, tu hai accettato ma Baccio ti ha fregato».
«Perché?».
«Perché, se fai bene i calcoli, i centesimi sono più di un bel po'».
La novizia scuoteva il capo e non capiva. Cantagallo proseguì.
«Baccio ti ha risposto come rispose il monaco Sessa al re indù Ladava che gli chiedeva come poteva sdebitarsi con lui per avergli insegnato il gioco degli scacchi. Nella leggenda però il furbo monaco chiese chicchi di grano. Anche Ladava si mise a ridere a sentire la richiesta di Sessa. Il giorno dopo i matematici di corte riferirono al re che la cifra di chicchi di grano era superiore a 18 trilioni 446 biliardi 744 bilioni 73 miliardi eccetera eccetera e che non sarebbero bastati i raccolti di tutto il regno per ottocento anni. Così il monaco insegnò al re che una richiesta apparentemente modesta può nascondere un prezzo enorme».
La novizia era rimasta di sasso anche perché non sapeva cosa fossero i trilioni e i bilioni. Tanto meno quanto valessero i biliardi, di cui a malapena conosceva il valore di quelli col panno verde.
«Nella scacchiera, come nelle indagini, devi valutare molto bene come si muove l'avversario e devi fare bene tutti i calcoli prima di prendere la decisione giusta. Una decisione sbagliata ti può mettere di fronte a una situazione insormontabile o fare prendere una strada senza uscita nella quale puoi mettere in pericolo la tua vita e quella dei colleghi. E questi errori noi non li possiamo fare, ricordatelo sempre».
«Comunque non avrei mai pensato che da una leggenda si sarebbe passati a parlare del nostro lavoro».
«Parlando fra noi, può capitare di ragionare su certe cose che poi ci portano in un'altra direzione. Quindi ben venga un ragionamento sulla scacchiera se ci può aiutare a smascherare il colpevole di un delitto».
Il commissario posò la tazzina e cercò di ritornare sui propri passi per sapere cosa stavano facendo.
«Allora, Baccio, che le spiegavi?».
«Le spiegavo la mossa del barbiere. La regina e l’alfiere danno scacco matto al re sacrificando il pedone».
«A proposito di sacrifici, non sacrifichiamo il lavoro per la scacchiera. Altrimenti a darci scacco matto ci pensa il Questore» e uscì dalla guardiola.
Passò dalla vice per ricordarle che era sempre in attesa di ricevere alcuni rapporti che doveva firmare e poi si diresse verso il suo ufficio. La dottoressa Turchi lo seguì perché glieli aveva appoggiati sulla scrivania e forse si erano confusi con altri incartamenti. La vice si mise ad armeggiare con le scartoffie, stando bene attenta a non scomporre la sistemazione della scrivania, a cui il commissario teneva moltissimo.
Cantagallo, nell’attesa, andò vicino alla finestra e guardò fuori.
La piazzetta davanti al commissariato era spazzata da un forte vento freddo che faceva mulinare, a poca altezza dal suolo, le prime foglie autunnali cadute dagli alberi.
In quel mentre un ragazzo e una ragazza passarono abbracciati, stretti nei loro giubbotti e incappucciati dalle felpe. Si dirigevano verso la via Maestra. Si misero a guardare le vetrine dei negozi. Lei osservava un piccolo braccialetto in oro e pietre colorate che costava poco.
«Arianna?!» domandò il ragazzo, accortosi del suo interesse per il braccialetto. «Ma che ti sei imbambolata su quel coso?».
«Io che cosa, Stefano?» chiese un po’ scocciata, perché non voleva ammettere il suo interesse per quel coso. «Dicevi di quel braccialetto lì?».
«Io quel “braccialetto” non l’ho nemmeno nominato» e sorrideva.
«No, figurati» disse lei, sbrigativa. «Pensavo ai libri e ai compiti che ho lasciato da mia nonna e che devo ancora finire. Prima devo passare da Costanza che abita nel palazzo accanto per prendere degli appunti. Accompagnami, così facciamo ancora un po’ di strada insieme».
Arianna, mora, sguardo intenso, non troppo alta, studentessa del secondo anno di ragioneria, passava i pomeriggi dalla nonna materna, la signora Piera Giubbolini, che faceva la sarta in casa. I genitori di Arianna lavoravano, rincasavano solo nel pomeriggio e affidavano la figlia alla nonna. La nipote e la nonna andavano molto d’accordo e la signora Piera ne era orgogliosa di questo. Era una donna piacevole, vecchio stampo e nonostante l’età portava benissimo i suoi anni. Era rimasta vedova da qualche anno e la nipote era l’unico raggio di sole di una vita ormai grigia. Arianna faceva i compiti sul tavolo del salotto mentre la nonna, allo stesso tavolo, tagliava e cuciva gonne e giacche per le clienti del paese. Libri, penne, quadernoni, stoffa, spilli e filo da imbastire erano sparsi un po’ dappertutto sul tavolo.
Appena furono arrivati, i due ragazzi si salutarono.
Arianna, dopo che aveva fatto quello che doveva fare, salì al piano. Entrò in casa e trovò sua nonna indaffarata nel salotto.
«Santa pace!» esclamò spazientita la signora Piera. «Non ho più la testa di una volta. Dovevo comprare la fodera e me ne sono dimenticata» aggiunse, guardando l’orologio.
«Non ti preoccupare, nonna. Vai pure, tanto devo finire i compiti. In casa non rimango da sola, c’è Franca».
Franca era la domestica, una brava donna di poco più di quaranta anni, che aiutava la signora Piera a sistemare la casa un paio di pomeriggi la settimana.
«Va bene, vado in paese e torno subito».
La nonna prese la borsa, si mise il cappotto e aprì la porta di casa. Poi, mentre stava per uscire, si girò e si riaffacciò dentro casa, parlando verso la cucina.
«Franca?!».
«Sì, signora. Sto mettendo i panni nella lavatrice. Arrivo subito».
«No, stai lì. Esco per comprare della fodera in paese. Faccio alla svelta. Ci vediamo dopo» si chiuse la porta alle spalle e uscì.
La signora Piera abitava in uno dei due palazzi comunicanti di sette piani di un condominio molto numeroso, che si trovava appena passato il passaggio a livello della ferrovia. Era a cinque minuti a piedi dal centro del paese e, se non si metteva di mezzo il treno che passava a quasi tutte le ore, avrebbe fatto alla svelta. Quella sera fu sfortunata. All’andata e al ritorno il passaggio a livello era chiuso e pure due sue amiche le fecero perdere tempo: Leontina Agnorelli e Primetta Brogioni. Erano a fare acquisti nel negozio di scampoli e, fra una chiacchiera e l’altra, la riaccompagnarono a casa. La signora Piera le fece salire con la scusa di vedere l’abito che cuciva per una sua cliente. Le tre donne presero l’ascensore e salirono fino al piano dell’appartamento.
«Dovete proprio vederlo. È per la signora Marcella, quella che sta all’attico. Una donna di buon gusto e che sa scegliere tessuti e modelli».
Uscirono sul pianerottolo e la signora Piera vide che c’era qualcosa di strano. La sua porta di casa era aperta. Un uomo con un foglio in mano e una borsa a tracolla era fermo sulla soglia e metteva il capo dentro per vedere se ci fosse qualcuno.
«C’è nessuno? Sono quello del gas. Sono qui per la lettura del contatore».
La signora Piera ebbe come un presentimento. Affrettò il passo e spostò bruscamente l’uomo che tentennava sull’uscio.
«Mi faccia passare, presto!» e spalancò la porta.
Entrò in casa e si precipitò nel salotto.
Arianna non era lì. Nella stanza c'era molta confusione, come se qualcuno avesse cercato qualcosa alla svelta.
«ARIANNA! ARIANNA! ARIANNAAA!!!».
La nonna era disperata, corse nel bagno ma non era neppure lì.
La casa era avvolta da uno strano silenzio.
E Franca? Come mai non c’era?
Pensò un attimo e corse verso la cucina. Entrò e vide uno spettacolo orrendo. Lanciò un urlo.
«FRANCAAA!!!».
Il corpo della domestica giaceva sul pavimento in una pozza di sangue. "
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