Nel giallo "Un vecchio tappeto persiano" la magia di una notte racchiude un furto misterioso e un terribile omicidio dai contorni impalpabili. Fuochi d’artificio e furti artificiosi, tappeti del magico oriente e riti di magie nostrane, omicidi non comprensibili e assassini da comprendere: questo e altro ancora sono gli ingredienti della torbida indagine che mette a dura prova le qualità investigative di Cantagallo. Molti sono i fatti da capire e tante le tracce da mettere insieme in una lunga serie di delitti che non sembrano stare insieme nemmeno con l’attacca-tutto. Ma non tutto si può capire quando a “parlare” è un tappeto orientale. Ed è proprio un vecchio tappeto che “parla” a Cantagallo e gli indica una precisa pista investigativa. Tutto accade nell’ultima notte quando il commissario, con un’abile mossa, riuscirà a fare compiere un passo falso all’omicida. Cantagallo farà tutti i passi giusti per raggiungere il colpevole perché il suo amico persiano gli ha detto: “Allunga il passo secondo la grandezza del tuo tappeto”.
Quello che segue è stato estratto dal giallo "Un vecchio tappeto persiano"
pubblicato da Cristian Cavinato della Cavinato Editore International e lo trovate anche su IBS al link qui sotto
http://www.ibs.it/ebook/Marazzoli-Fabio/Un-vecchio-tappeto/9788899121303.html (...)
Capitolo uno
"La notte porta
consiglio" diceva un proverbio, ma chi l’aveva detto? A Cantagallo non
capitava mai. Gli bastava sfiorare la federa del cuscino per piombare nel sonno
più profondo. Non aveva mai sognato consigli o suggerimenti. E soprattutto non
lo aveva mai desiderato prima di addormentarsi. Si perse dietro a questo
pensiero mentre dalla sua terrazza osservava l’orizzonte, dove l’astro notturno
stentava a farsi vedere, chissà poi perché. Se valeva il detto: “Gobba a
ponente, luna crescente”, quella notte poteva valere anche quello che si era
inventato testé: “Plenilunio a levante, luna riluttante”.
La luna piena indugiava fra le mura del Cassero, sopra la pendice
orientale del Colle Tondo. Come una grande diva, si faceva attendere. Non
voleva farsi vedere perché la sera prima, alla tv, uno scienziato saputello
aveva detto che sarebbe apparsa più grassa o più grossa, non ricordava bene. Il
saputello aveva aggiunto che quel particolare effetto era dovuto a un
cambiamento astrale, eccetera eccetera eccetera. Saputello di uno scienziato,
tutto chiacchiere e occhiali! Un pettegolezzo bello e buono, altroché! Ma che
cambiamento e cambiamento, era solo un po' più in forma, ecco tutto. Se non era
tirata in ballo per vampiri o lupi mannari, c'era sempre uno scienziato di
turno che metteva in giro una maldicenza. E da chi era stato imbeccato? Ma
certo, da quelle sue cugine alla lontana parecchio: le stelline dei segni
zodiacali. Invidiose, imbrillantinate e impertinenti che da sempre
influenzavano i miseri mortali. Mentre ci rimuginava, a un tratto, lungo le
mura furono accese delle fiaccole, le cui fiamme avrebbero reso ancor più
suggestivo il chiaro di luna. Quello era il momento giusto. Ruppe gli indugi e
si mostrò in tutto il suo splendore. Nel sollevarsi notò, nella parte centrale
del colle, un’ampia zona illuminata che brulicava di persone. Non capiva tutto
quel gran fermento, proprio la sera di quel ventuno di giugno. Rimase lì, un
po’ perplessa. Pensava e ripensava, ma quella data non le faceva venire in mente
proprio niente. Si rassegnò, senza preoccuparsene troppo. D’altronde la sua
natura lunatica non la obbligava di ricordare tutti gli avvenimenti del
calendario e non le dette importanza. Ma non era l’unica a non essere
interessata.
Dalla parte opposta, sul Colle al Vento, due tipi loschi dal goffo
aspetto da ladri di polli trafficavano all’interno di una villetta isolata.
Uno, spilungone e ingobbito con l’aria a pesce lesso e
dall’accento toscano, si muoveva a tentoni nel buio pesto di uno stretto corridoio.
Chiamava a voce alta il compare agitando una torcia spenta.
«Ignazio! Ignazio! Ignaziooo! Dove sei?»
L’altro, bassotto e tarchiato dallo sguardo scaltro e dall’accento
siciliano, armeggiava al portoncino della casa. Tentava di calmare il compare
senza fare confusione. Anche lui aveva in mano una torcia spenta e si
tratteneva dal dargliela in testa.
«Loris, scimunito! E dove devo essere? Sono qua, a chiudere la
porta. Non fare casino e stai muto, che ti sentono da fuori. Fai quello che ti
dico io, altrimenti, a schifìo finisce.»
«Scusa, Ignazio. Allora faccio quello che dici te.»
Lo spilungone si tranquillizzò, ma andò a sbattere contro un
mobile.
«Ahia che botta! Non si vede un tubo!»
«Scimunito! Ora puoi accendere la torcia. Le finestre sono chiuse e
nessuno ci può vedere da fuori. Capisti?»
Il toscano dopo averci pensato un po’ si convinse e l’accese.
«Ecco fatto. Ora sì che vedo bene!»
«E stai muto!» trattenendo un'imprecazione e sollevando gli occhi
al cielo.
I due s’incamminarono verso il soggiorno della casa con il fascio
oscillante delle torce che illuminava il loro passaggio. Poi arrivati, si
fermarono. Il siciliano controllò un foglio che aveva in mano.
«Loris, pigliasti i sacchi grandi?»
Silenzio.
Il bassotto era incavolato. Stava per perdere la pazienza. Teneva
serrata l’impugnatura della torcia con il fascio di luce rivolto verso l’alto e
puntava dritto la testa dello spilungone.
Sembrava il potente Joda con la spada laser attivata pronto a
sferrare il colpo contro il diabolico Dart Fener.
«Loris, allora?! Ma che ti sei rimbambito?»
Lo spilungone si era imbambolato. Osservava a bocca aperta il
ricco arredamento della stanza. Non doveva avere mai visto una casa così. Poi
si riprese e con un tono di superiorità, degno del Signore del Lato Oscuro,
rispose al bassotto.
«Ignazio, ma non mi hai detto che devo stare zitto?»
«Loris, scimunito! Ti dissi di non fare casino. Non ti bastò che
l’ultima volta ci arrestarono per colpa tua. Ricordasti?»
«Sì, Ignazio. Ma stavolta in casa non c’è nessuno. Allora, starò
zitto.»
«Mih! Quanto sei duro!» e gli assestò una manata “stellare” sulla
nuca.
«Ahia, che botta! Mi fai vedere le stelle.»
Ovviamente.
«Se ti faccio una domanda, mi devi rispondere. Ora capisti?»
«Ora ho capito» mentre si teneva la testa per la botta.
«Bravo.»
Lo jedi e il Signore Oscuro si erano finalmente intesi.
«Loris, pigliasti i sacchi grandi?»
«Sì, Ignazio.»
Silenzio.
«Me lo dai un sacco grande, sì o no?»
«Ma non me l’hai mica chiesto! Prima hai detto: “Se ti faccio una
domanda, mi devi rispondere”. Io ti ho risposto e ti ho detto sì. Cosa c’è che
non va bene?! Hai capito?»
«Ho capito! Ho capito! Dammi il sacco grande!»
«Oh, vedi che hai capito! Ecco il sacco grande, capo!»
«E non chiamarmi “capo”! Quante volte te lo devo dire! Poi, per
abitudine, lo dici quando ci sono altre persone e…»
«…a schifìo finisce!»
«LORIIIS!»
«Non parlare a voce alta che ti sentono da fuori, Ignazio.»
«E non mi prendere per il culo, scimunito!» e gli assestò una
gomitata nel fianco.
«Ahia, che botta! Mi hai fatto male» piagnucolò l’altro piegandosi
in due.
Il bassotto era sfinito. Con lo spilungone era sempre la stessa
storia e non poteva farci niente. Per certe vicende di parentela si era
ritrovato come compare quel cugino toscano di terzo grado. Non era un pozzo di
intelligenza ma dopo averci lottato un po’ faceva tutto quello che gli veniva
detto di fare, ubbidiente come un cane al guinzaglio.
Il siciliano si tratteneva da dargli un cazzotto in bocca. Non ce
la faceva: era come fare del male a un bambino cretino, anzi scimunito.
«Per te c’è un proverbio delle mie parti che dice: “Mistura,
metticinni ‘na visazza, falla comu la vua, sempri è cucuzza!”.»
«Che vuol dire?»
«Ti spiego. Dalle mie parti, sta a significare che una zuppa di
zucca anche se la mescoli, se ci metti altre verdure e la fai come ti pare,
sempre di zucca ha il sapore. Allora, se uno è uno scimunito anche se gli dici
di fare le cose per bene, glielo dici e glielo ridici un’altra volta sempre
scimunito rimane. Capisti?»
«Allora, Ignazio, è come quando noi toscani si dice: “Non si può
cavare il sangue da una rapa”.»
«Bravo, Loris. Capisti.»
Il lavoro dei due proseguiva. Il siciliano leggeva la lista degli
oggetti scritta su un foglio, osservava gli oggetti, li sceglieva e poi
indicava al toscano di metterli dentro i sacchi. Alla fine Ignazio prese i
tappeti che erano scritti sulla lista e li portò nel furgone. Avvertì il
compare che, dopo aver preso gli oggetti della lista, sarebbero rientrati nella
casa per prendere altre cose, ma per loro. Si raccomandò di prendere solo roba
preziosa e non i soliti souvenir come faceva abitualmente. Loris, infatti, non capiva assolutamente
nulla del valore degli oggetti. Lo spilungone lo rassicurò annuendo col capo e
dicendogli di non preoccuparsi perché stavolta avrebbe scelto un oggetto
veramente prezioso. Il bassotto gli ricordò che dovevano sbrigarsi perché c’era
da fare un altro lavoretto in paese. Il siciliano era nel soggiorno per
scegliere degli oggetti d’argento. Il toscano era nello studio ad osservare
tutto l’arredamento per capire cosa potesse portare via. Dopo un po’ lo
spilungone era di ritorno, tutto soddisfatto e con un tappeto arrotolato sulle
spalle. Era raggiante come se avesse trovato un tesoro.
«Oh, Ignazio! Vu cumprà? Prezzo bono, costa poco!»
«Loris, ma proprio scimunito sei? Che pigliasti?»
«È un tappeto bellissimo. Varrà un sacco di soldi! Lo posso
prendere?»
«Prendilo. Caricalo sul furgone insieme all'altra roba e andiamo
via alla svelta. I padroni potrebbero arrivare da un momento all’altro e se ci
trovano…»
«…a schifìo finisce!» concluse l’altro, sghignazzando.
«Loriiis! Grandissimo cornuto!»
Il siciliano, d’impeto, cercò di assestargli un calcio nel culo ma
non ce la fece perché lo spilungone aveva capito la malaparata e si era di poco
allontanato. La gamba robusta ma corta non riuscì ad arrivare al fondo schiena
del compare. Il toscano schivò la pedata e, tappeto in spalla, prese la corsa
verso l’uscita fra le imprecazioni dell’altro che lo inseguiva.
Intanto altre attività fremevano nella casa della famiglia
Cantagallo. Era San Luigi ed era il giorno del compleanno del figlio del
commissario. Abitualmente si riunivano insieme alla famiglia della cognata del
commissario, i Benincasa. Cenavano, tagliavano la torta e poi guardavano i fuochi
d’artificio in onore del santo patrono. Era una delle poche occasioni per
ritrovarsi insieme a Giovanni, Olga e al loro unico figlio, Sergio, coetaneo di
Luigi.
I fuochi d’artificio sul Colle Tondo iniziavano sempre in orario,
alle dieci di sera spaccate. Mancava poco all’ora d’inizio.
«Venite fuori. Fra poco dovrebbero iniziare!» disse il
commissario, rivolto al resto della compagnia che era seduta nel soggiorno.
«Arriviamo» risposero in coro gli altri, alzandosi.
Nell’aria notturna, in lontananza, una luce bianca sfavillante
squarciò l’oscurità del cielo sopra la Fortezza Medicea, arroccata in cima al
colle dove riposavano i resti delle case medievali del paese.
Seguì un sibilo assordante.
«Ci siamo! Occhio al botto d’inizio» esclamò Luigi, tutto eccitato.
Appena finì la frase un boato assordante riempì la vallata.
«È il botto di San Luigi…» biascicò Sergio, per niente emozionato.
Tutti i componenti delle due famiglie si misero appoggiati con i
gomiti al davanzale della terrazza. Si preparavano ad assistere allo spettacolo
pirotecnico collitondese dell’anno.
I botti di San Luigi erano un evento per tutta la Val Marna.
Il cielo buio, di volta in volta all’esplodere di ogni fuoco
d’artificio, s’illuminava con il riflesso dei colori sprigionati dal botto.
Alcuni erano splendidi, come quello chiamato “Cascata di Stelle” dove una
pioggia di migliaia di lunghissimi raggi dorati ricadeva verso il basso, con un
effetto rallentato che simulava una gigantesca cascata del colore dell’oro.
Negli ultimi anni la “Cascata” era sempre presente e ogni volta suscitava
stupore e meraviglia.
«Babbo! Babbo!» riprese Luigi eccitato. «Fra poco arriva quello
bello, lo sento!»
«Arriva, arriva. C’è sempre tutti gli anni» fece Sergio annoiato.
E puntuale la “Cascata” si manifestò in tutta la sua bellezza.
«Ogni anno è sempre più bello!»
«Per me, è sempre lo stesso.»
I due cuginetti si guardavano storto.
«Buoni, voi due» disse Olga che aveva già annusato aria di litigio
fra i due cuginetti che, nonostante facessero le medie, trovavano sempre
qualcosa per cui litigare come due bambini piccini. «Guardate i fuochi e non
bisticciate.»
I fuochi d’artificio si conclusero, come da tradizione, alle dieci e mezzo. Tre botti assordanti
seguiti da un silenzio assoluto fecero capire a tutti che lo spettacolo era
finito.
L’atmosfera magica com’era arrivata, se n’era andata.
Rimasero a parlare un po’ in terrazza per godersi il fresco. Poi
lo squillo del telefono di casa risvegliò i pensieri del padrone di casa.
«Pronto, commissario Cantagallo.»
«Sono Nicoletta. Mi dispiace disturbarla proprio durante il
compleanno di suo figlio, ma hanno denunciato un furto.»
Nicoletta Turchi, vice di Cantagallo, spiegò che era stato
denunciato un furto in una villa che si trovava in località Ginestreto, sul
Colle al Vento, in via Pietro Nenni al numero 67. Era una monofamiliare di
proprietà dei signori Trosino ed erano stati proprio loro, al ritorno dal mare,
a chiamare la Polizia. La donna che aveva chiamato, la signora Ninetta, era
disperata. Al loro rientro avevano
trovato la porta aperta e scassinata. L’impianto d’allarme doveva essere stato
messo fuori uso dai ladri. La signora aveva denunciato il furto ma non era
stata in grado di dire di più. Era sempre sconvolta da quello che era successo
e da come aveva trovato la casa. Il commissario disse alla vice di avvertire
Bandino e Razzo per farli andare alla villa dei Trosino. L’avvertì di fare
perimetrare le stanze della casa svaligiata, anche se non si trattava di un
delitto. Si ricordava che l’ultima volta che accadde un furto in una villa il
Questore lo rincoglionì di chiacchiere perché sosteneva che avevano
sottovalutato la situazione. Guarda caso, la villa era di una cugina di terzo
grado di Zorro, eccetera eccetera eccetera. Quindi Cantagallo voleva coprirsi le
spalle e anche qualcos’altro che si trovava un po’ più in basso. Si raccomandò
che Bandino e Razzo non toccassero niente. Se proprio non ce la facevano,
avrebbero dovuto utilizzare i guanti e le soprascarpe. Nessuno, oltre a loro e
ai proprietari, doveva stare nei dintorni della villa. Se i ladri erano
veramente degli sprovveduti potevano aver lasciato in giro molte tracce. La
vice doveva seguire tutte le operazioni fino al suo arrivo. Poi Cantagallo
chiuse la telefonata. Posò la cornetta malamente ed era scocciato.
«Guai in ufficio?» chiese Iolanda.
«Sì, meno male non si tratta di un delitto.»
«Grazie a Dio! Ma non c’è Nicoletta? Devi andare per forza anche
tu?»
«Nicoletta c’è, ma preferisco esserci anch’io. Il posto è qui
vicino e spero di fare presto. Mi dispiace» e accennò un piegamento del capo
«ma “Obtorto collo”, come direbbe il Questore.»
«Angelo!» esclamò Giovanni. «Ma che fai?! Ti metti a parlare in
latino? Non mi hai sempre detto che hai il rifiuto per questa lingua morta e
sepolta?»
«È vero. Ma il Questore mi ha talmente infarcito di frasi in
latino che a volte mi scappano fuori da sé. Ti faccio un esempio. È come quando
a un pollo ripieno esce di fuori il condimento perché ce n’è troppo. Ora però
devo scappare.»
Uscì dal portone di casa e salì sull’auto per recarsi alla villa
Trosino. Nel giro di dieci minuti era già lì. La villa era molto
bella e solo una piccola siepe, ben curata e non troppo alta, la celava dalla
vista delle persone che si potevano trovare sulla strada.
La vice era già arrivata, Bandino e Razzo ancora no.
«Buonasera, commissario.»
«Buonasera, dottoressa. I Trosino dove sono?»
«Sono in casa per vedere cosa è stato rubato.»
I signori Trosino le avevano riferito che i ladri non si erano
accorti di una piccola telecamera che era posizionata all’esterno, poco lontano
dall’entrata della casa e nascosta fra le piante. Gliela indicò e gli mostrò il
portoncino da dove erano entrati i ladri. Lo dovevano avere forzato facilmente
utilizzando un piede di porco. La vice spiegò al commissario che aveva
visionato la cassetta della video registrazione. Non era riuscita a vedere in
volto i due ladri ma in compenso si era fatta delle risate nel vederli in
azione. Verso la fine del filmato la telecamera aveva ripreso il ladro più alto
che usciva di corsa dalla villa inseguito da quello più basso che con il
braccio destro alzato agitava una torcia accesa. Quello basso gli stette dietro
per un po’ mentre quello alto girava intorno al furgone. Poi si erano fermati
tutti e due. Quello basso gesticolava verso quello alto che si era curvato
vicino alla parte posteriore del furgone per depositare il fardello che aveva
sulle spalle. Quando però quello alto si era piegato in avanti, quello basso
da dietro gli aveva
sferrato una pedata nel culo che lo aveva fatto finire dentro il furgone. Visto
che le immagini erano in bianco e nero e senza audio, sembrava di vedere una
comica di Stanlio e Ollio.
La vice in tutto quel trambusto aveva notato che il tipo alto
aveva sulle spalle un oggetto strano, molto lungo e ingombrante. Rivedendo il
filmato aveva capito che si trattava di un tappeto.
(...)
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