Nel giallo "la mossa del barbiere" il commissario Cantagallo è messo a dura prova. Dovrà uscire da una situazione pericolosa che non aveva preso in considerazione fino a quel momento. L'assassino
ha il cervello di un grande giocatore di scacchi e per portare a termine la sua
macchinazione deve spostare l'attenzione del commissario sulla persona che ha
già scelto come vittima predestinata, un po' come nella famosa "mossa del
barbiere". L'omicida deve fare solo poche rapide mosse per trarre in inganno il
poliziotto che si trova più a suo agio a ragionare di fronte a un mosaico che
non davanti a una scacchiera. La mente dell'assassino ha ponderato i movimenti da fare e muoverà le sue pedine con grande
cautela, in questa torbida indagine che si presenta come una partita a scacchi per il commissario Cantagallo.
Quello che segue è stato estratto dal giallo "La mossa del barbiere"
pubblicato da Cristian Cavinato della Cavinato Editore International e lo trovate anche su IBS al link qui sottohttp://www.ibs.it/ebook/marazzoli-fabio/mossa-del-barbiere/9788869820571.html
(...)
Capitolo
uno
Alla macchinetta del caffè, il commissario
Cantagallo sorseggiava un “Blu”, un caffè speciale che da qualche tempo a
quella parte si concedeva in ufficio nel dopo pranzo.
Passata l’estate, il commissariato si era
dotato di una macchina a cialde che era stata comprata dopo una democratica
votazione dei colleghi. Quasi all’unanimità avevano scelto un gioiellino che
faceva un caffè come quello del bar. Nella votazione Cantagallo si era astenuto,
anche perché non era abituato a bere caffè durante la giornata e la cosa lo
lasciava indifferente. Ma dopo aver assaggiato quello di “Carmençita”, così l’aveva
soprannominata, si era dovuto ricredere. Da quel momento non poteva fare a meno
di prendersi un espresso nel dopo pranzo, mentre ogni tanto si regalava un
“Blu”, ovvero un caffè “Jamaica Blue Mountain”. Costava più degli altri in
circolazione ma era il caffè più buono del mondo. Ricchissimo di aromi perché
coltivato ad alta quota nella terra lavica delle montagne blu della Giamaica
con oltre dieci mesi di maturazione, così glielo aveva descritto Baccio.
Cantagallo lo beveva rigorosamente nella tazzina, ma di un tipo particolare. Era
un bicchiere di porcellana bianca, dalla forma di un bicchierino da caffè di
plastica accartocciato. Al commissariato si erano organizzati così: ognuno si
portava la propria tazzina da casa per non bersi il caffè nei bicchierini di
plastica, tanto pratici ma tanto inadatti a percepire in pieno l’aroma del
caffè. E quando arrivava l’inverno, le cose peggioravano. Col freddo, il caffè
si raffreddava subito spegnendo così tutto il suo profumo. Proprio come in quei
giorni d’inizio ottobre, quando dell’aria nordica fuori stagione aveva deciso
di insinuarsi fra le vie del paese.
Cantagallo, mentre col cucchiaino era intento
a recuperare dal fondo della tazzina lo zucchero cremoso impregnato di caffè, dette
uno sguardo di sfuggita alla guardiola. Dentro, Baccio e Cappera, con la loro tazzina
di caffè in mano, parlavano e guardavano il computer, dove c’era la simulazione
di una partita a scacchi. Baccio, serio, indicava le tecniche per muovere i
pezzi della scacchiera. Se avesse indossato una tunica arancione, con la sua
corporatura grassoccia, il viso tondo e i pochi capelli in testa, si sarebbe
potuto benissimo scambiare per un monaco tibetano in gita. Cappera, attenta, lo
ascoltava in religioso silenzio come una diligente novizia dello Zen. Baccio era
un campione della scacchiera. L’anno prima aveva vinto il campionato
provinciale Interforze di scacchi delle Forze di Polizia portando a casa la
coppa del primo premio e un bel prosciutto offerto dallo sponsor. Il trofeo,
una riproduzione dorata un po’ pacchiana del re degli scacchi simile alla
statuetta degli Oscar, risplendeva sulla sua scrivania e suscitava l’invidia
del commissario, che ogni tanto si cimentava col collega avendo spesso la
peggio.
Ma quei due che stavano facendo?
Cantagallo si avvicinò incuriosito.
«Che fai, Baccio? Fai vedere a Cappera come
mi stracci a scacchi?».
«Ci mancherebbe altro, commissario. Due
partite le vinco io e una la vince lei, niente “cappotti” per ora. Le ricordo
che le devo la rivincita per quella che ha perso l’altro giorno».
«Giusto. Ma ora, che fai?».
«Approfittavo della pausa caffè per far vedere
certe mosse particolari a Cappera che è alle prime armi. Ho lasciato la
scacchiera a casa e così approfittavo del computer per guardare la simulazione
di una partita».
«Baccio è proprio in gamba, commissario»
fece la novizia mentre sorseggiava il caffè. «Vorrei pagargli le lezioni di
scacchi, ma non mi ha ancora detto quanto vuole».
«Cappera, se proprio vuoi pagarmi» iniziò a
dire Baccio «mi darai un centesimo per la prima casella della scacchiera, due
per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta e così via
raddoppiando i centesimi su ogni casella fino alla sessantaquattresima».
La poliziotta rise per quella richiesta che
le sembrava ridicola.
«Pensavo di più, con un bel po' di
centesimi me la cavo. Accetto».
Cantagallo sorrise e guardò Baccio che
intanto rideva di gusto.
Cappera non capiva.
«Ma che avete tutti e due? Ho detto che
pago e pagherò!».
Il commissario spiegò il mistero.
«Cappera, tu hai accettato ma Baccio ti ha
fregato».
«Perché?».
«Perché, se fai bene i calcoli, i centesimi
sono più di un bel po'».
La novizia scuoteva il capo e non capiva.
Cantagallo proseguì.
«Baccio ti ha risposto come rispose il
monaco Sessa al re indù Ladava che gli chiedeva come poteva sdebitarsi con lui
per avergli insegnato il gioco degli scacchi. Nella leggenda però il furbo
monaco chiese chicchi di grano. Anche Ladava si mise a ridere a sentire la
richiesta di Sessa. Il giorno dopo i matematici di corte riferirono al re che
la cifra di chicchi di grano era superiore a 18 trilioni 446 biliardi 744
bilioni 73 miliardi eccetera eccetera e che non sarebbero bastati i raccolti di
tutto il regno per ottocento anni. Così il monaco insegnò al re che una
richiesta apparentemente modesta può nascondere un prezzo enorme».
La novizia era rimasta di sasso anche
perché non sapeva cosa fossero i trilioni e i bilioni. Tanto meno quanto
valessero i biliardi, di cui a malapena conosceva il valore di quelli col panno
verde.
«Nella scacchiera, come nelle indagini,
devi valutare molto bene come si muove l'avversario e devi fare bene tutti i
calcoli prima di prendere la decisione giusta. Una decisione sbagliata ti può
mettere di fronte a una situazione insormontabile o fare prendere una strada
senza uscita nella quale puoi mettere in pericolo la tua vita e quella dei
colleghi. E questi errori noi non li possiamo fare, ricordatelo sempre».
«Comunque non avrei mai pensato che da una
leggenda si sarebbe passati a parlare del nostro lavoro».
«Parlando fra noi, può capitare di
ragionare su certe cose che poi ci portano in un'altra direzione. Quindi ben
venga un ragionamento sulla scacchiera se ci può aiutare a smascherare il
colpevole di un delitto».
Il commissario posò la tazzina e cercò di
ritornare sui propri passi per sapere cosa stavano facendo.
«Allora, Baccio, che le spiegavi?».
«Le spiegavo la mossa del barbiere. La
regina e l’alfiere danno scacco matto al re sacrificando il pedone».
«A proposito di sacrifici, non
sacrifichiamo il lavoro per la scacchiera. Altrimenti a darci scacco matto ci
pensa il Questore» e uscì dalla guardiola.
Passò dalla vice per ricordarle che era
sempre in attesa di ricevere alcuni rapporti che doveva firmare e poi si
diresse verso il suo ufficio. La dottoressa Turchi lo seguì perché glieli aveva
appoggiati sulla scrivania e forse si erano confusi con altri incartamenti. La
vice si mise ad armeggiare con le scartoffie, stando bene attenta a non
scomporre la sistemazione della scrivania, a cui il commissario teneva
moltissimo.
Cantagallo, nell’attesa, andò vicino alla
finestra e guardò fuori.
La piazzetta davanti al commissariato era
spazzata da un forte vento freddo che faceva mulinare, a poca altezza dal suolo,
le prime foglie autunnali cadute dagli alberi.
In quel mentre un ragazzo e una ragazza
passarono abbracciati, stretti nei loro giubbotti e incappucciati dalle felpe.
Si dirigevano verso la via Maestra. Si misero a guardare le vetrine dei negozi.
Lei osservava un piccolo braccialetto in oro e pietre colorate che costava
poco.
«Arianna?!» domandò il ragazzo, accortosi
del suo interesse per il braccialetto. «Ma che ti sei imbambolata su quel coso?».
«Io che cosa, Stefano?» chiese un po’
scocciata, perché non voleva ammettere il suo interesse per quel coso. «Dicevi di quel braccialetto lì?».
«Io quel “braccialetto” non l’ho nemmeno
nominato» e sorrideva.
«No, figurati» disse lei, sbrigativa.
«Pensavo ai libri e ai compiti che ho lasciato da mia nonna e che devo ancora finire. Prima devo
passare da Costanza che abita nel palazzo accanto per prendere degli appunti.
Accompagnami, così facciamo ancora un po’ di strada insieme».
(...)
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