sabato 5 dicembre 2015

La "mossa" del commissario Cantagallo


Nel giallo "la mossa del barbiere" il commissario Cantagallo è messo a dura prova. Dovrà uscire da una situazione pericolosa che non aveva preso in considerazione fino a quel momento. L'assassino ha il cervello di un grande giocatore di scacchi e per portare a termine la sua macchinazione deve spostare l'attenzione del commissario sulla persona che ha già scelto come vittima predestinata, un po' come nella famosa "mossa del barbiere". L'omicida deve fare solo poche rapide mosse per trarre in inganno il poliziotto che si trova più a suo agio a ragionare di fronte a un mosaico che non davanti a una scacchiera. La mente dell'assassino ha ponderato i movimenti da fare e muoverà le sue pedine con grande cautela, in questa torbida indagine che si presenta come una partita a scacchi per il commissario Cantagallo. 
Quello che segue è stato estratto dal giallo "La mossa del barbiere" pubblicato da Cristian Cavinato della Cavinato Editore International e lo trovate anche su IBS al link qui sotto
http://www.ibs.it/ebook/marazzoli-fabio/mossa-del-barbiere/9788869820571.html



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Capitolo uno 






    Alla macchinetta del caffè, il commissario Cantagallo sorseggiava un “Blu”, un caffè speciale che da qualche tempo a quella parte si concedeva in ufficio nel dopo pranzo.
    Passata l’estate, il commissariato si era dotato di una macchina a cialde che era stata comprata dopo una democratica votazione dei colleghi. Quasi all’unanimità avevano scelto un gioiellino che faceva un caffè come quello del bar. Nella votazione Cantagallo si era astenuto, anche perché non era abituato a bere caffè durante la giornata e la cosa lo lasciava indifferente. Ma dopo aver assaggiato quello di “Carmençita”, così l’aveva soprannominata, si era dovuto ricredere. Da quel momento non poteva fare a meno di prendersi un espresso nel dopo pranzo, mentre ogni tanto si regalava un “Blu”, ovvero un caffè “Jamaica Blue Mountain”. Costava più degli altri in circolazione ma era il caffè più buono del mondo. Ricchissimo di aromi perché coltivato ad alta quota nella terra lavica delle montagne blu della Giamaica con oltre dieci mesi di maturazione, così glielo aveva descritto Baccio. Cantagallo lo beveva rigorosamente nella tazzina, ma di un tipo particolare. Era un bicchiere di porcellana bianca, dalla forma di un bicchierino da caffè di plastica accartocciato. Al commissariato si erano organizzati così: ognuno si portava la propria tazzina da casa per non bersi il caffè nei bicchierini di plastica, tanto pratici ma tanto inadatti a percepire in pieno l’aroma del caffè. E quando arrivava l’inverno, le cose peggioravano. Col freddo, il caffè si raffreddava subito spegnendo così tutto il suo profumo. Proprio come in quei giorni d’inizio ottobre, quando dell’aria nordica fuori stagione aveva deciso di insinuarsi fra le vie del paese.
    Cantagallo, mentre col cucchiaino era intento a recuperare dal fondo della tazzina lo zucchero cremoso impregnato di caffè, dette uno sguardo di sfuggita alla guardiola. Dentro, Baccio e Cappera, con la loro tazzina di caffè in mano, parlavano e guardavano il computer, dove c’era la simulazione di una partita a scacchi. Baccio, serio, indicava le tecniche per muovere i pezzi della scacchiera. Se avesse indossato una tunica arancione, con la sua corporatura grassoccia, il viso tondo e i pochi capelli in testa, si sarebbe potuto benissimo scambiare per un monaco tibetano in gita. Cappera, attenta, lo ascoltava in religioso silenzio come una diligente novizia dello Zen. Baccio era un campione della scacchiera. L’anno prima aveva vinto il campionato provinciale Interforze di scacchi delle Forze di Polizia portando a casa la coppa del primo premio e un bel prosciutto offerto dallo sponsor. Il trofeo, una riproduzione dorata un po’ pacchiana del re degli scacchi simile alla statuetta degli Oscar, risplendeva sulla sua scrivania e suscitava l’invidia del commissario, che ogni tanto si cimentava col collega avendo spesso la peggio.
    Ma quei due che stavano facendo?
    Cantagallo si avvicinò incuriosito.
    «Che fai, Baccio? Fai vedere a Cappera come mi stracci a scacchi?».
    «Ci mancherebbe altro, commissario. Due partite le vinco io e una la vince lei, niente “cappotti” per ora. Le ricordo che le devo la rivincita per quella che ha perso l’altro giorno».
    «Giusto. Ma ora, che fai?».
    «Approfittavo della pausa caffè per far vedere certe mosse particolari a Cappera che è alle prime armi. Ho lasciato la scacchiera a casa e così approfittavo del computer per guardare la simulazione di una partita».
    «Baccio è proprio in gamba, commissario» fece la novizia mentre sorseggiava il caffè. «Vorrei pagargli le lezioni di scacchi, ma non mi ha ancora detto quanto vuole».
    «Cappera, se proprio vuoi pagarmi» iniziò a dire Baccio «mi darai un centesimo per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta e così via raddoppiando i centesimi su ogni casella fino alla sessantaquattresima». 
    La poliziotta rise per quella richiesta che le sembrava ridicola.
    «Pensavo di più, con un bel po' di centesimi me la cavo. Accetto».
    Cantagallo sorrise e guardò Baccio che intanto rideva di gusto.
    Cappera non capiva.
    «Ma che avete tutti e due? Ho detto che pago e pagherò!».
    Il commissario spiegò il mistero.
    «Cappera, tu hai accettato ma Baccio ti ha fregato».
    «Perché?».
    «Perché, se fai bene i calcoli, i centesimi sono più di un bel po'».
    La novizia scuoteva il capo e non capiva. Cantagallo proseguì.  
    «Baccio ti ha risposto come rispose il monaco Sessa al re indù Ladava che gli chiedeva come poteva sdebitarsi con lui per avergli insegnato il gioco degli scacchi. Nella leggenda però il furbo monaco chiese chicchi di grano. Anche Ladava si mise a ridere a sentire la richiesta di Sessa. Il giorno dopo i matematici di corte riferirono al re che la cifra di chicchi di grano era superiore a 18 trilioni 446 biliardi 744 bilioni 73 miliardi eccetera eccetera e che non sarebbero bastati i raccolti di tutto il regno per ottocento anni. Così il monaco insegnò al re che una richiesta apparentemente modesta può nascondere un prezzo enorme».
    La novizia era rimasta di sasso anche perché non sapeva cosa fossero i trilioni e i bilioni. Tanto meno quanto valessero i biliardi, di cui a malapena conosceva il valore di quelli col panno verde.
    «Nella scacchiera, come nelle indagini, devi valutare molto bene come si muove l'avversario e devi fare bene tutti i calcoli prima di prendere la decisione giusta. Una decisione sbagliata ti può mettere di fronte a una situazione insormontabile o fare prendere una strada senza uscita nella quale puoi mettere in pericolo la tua vita e quella dei colleghi. E questi errori noi non li possiamo fare, ricordatelo sempre».
    «Comunque non avrei mai pensato che da una leggenda si sarebbe passati a parlare del nostro lavoro».
    «Parlando fra noi, può capitare di ragionare su certe cose che poi ci portano in un'altra direzione. Quindi ben venga un ragionamento sulla scacchiera se ci può aiutare a smascherare il colpevole di un delitto».
    Il commissario posò la tazzina e cercò di ritornare sui propri passi per sapere cosa stavano facendo. 
    «Allora, Baccio, che le spiegavi?».
    «Le spiegavo la mossa del barbiere. La regina e l’alfiere danno scacco matto al re sacrificando il pedone».
    «A proposito di sacrifici, non sacrifichiamo il lavoro per la scacchiera. Altrimenti a darci scacco matto ci pensa il Questore» e uscì dalla guardiola.
    Passò dalla vice per ricordarle che era sempre in attesa di ricevere alcuni rapporti che doveva firmare e poi si diresse verso il suo ufficio. La dottoressa Turchi lo seguì perché glieli aveva appoggiati sulla scrivania e forse si erano confusi con altri incartamenti. La vice si mise ad armeggiare con le scartoffie, stando bene attenta a non scomporre la sistemazione della scrivania, a cui il commissario teneva moltissimo.
    Cantagallo, nell’attesa, andò vicino alla finestra e guardò fuori.
    La piazzetta davanti al commissariato era spazzata da un forte vento freddo che faceva mulinare, a poca altezza dal suolo, le prime foglie autunnali cadute dagli alberi.
    In quel mentre un ragazzo e una ragazza passarono abbracciati, stretti nei loro giubbotti e incappucciati dalle felpe. Si dirigevano verso la via Maestra. Si misero a guardare le vetrine dei negozi. Lei osservava un piccolo braccialetto in oro e pietre colorate che costava poco.
    «Arianna?!» domandò il ragazzo, accortosi del suo interesse per il braccialetto. «Ma che ti sei imbambolata su quel coso?».
    «Io che cosa, Stefano?» chiese un po’ scocciata, perché non voleva ammettere il suo interesse per quel coso. «Dicevi di quel braccialetto lì?».
    «Io quel “braccialetto” non l’ho nemmeno nominato» e sorrideva.
    «No, figurati» disse lei, sbrigativa. «Pensavo ai libri e ai compiti che ho lasciato da mia nonna e che devo ancora finire. Prima devo passare da Costanza che abita nel palazzo accanto per prendere degli appunti. Accompagnami, così facciamo ancora un po’ di strada insieme».  
 


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